lunedì 7 novembre 2011

MOLISANI NEL MONDO

Convegno Molisani nel Mondo
Campobasso - Autunno, 1987


Avventure di molisani
nel Nuovo Mondo
Già altri prima di me hanno parlato molto bene, scientificamente direi, dell’emigrazione molisana dall’Ottocento ad oggi. E hanno spiegato come e perché dalle colline del Molise i nostri corregionali hanno sempre risalito i tratturi della memoria in cerca del mare. Nei miei anni giovani a Casacalenda io vedevo, con invidia ma anche con contentezza, i miei compaesani assediare il treno che si fermava fra due gallerie - una che portava a sud, l’altra al nord, - e quindi sparire nel tunnel, sempre quello del nord.

Ricordo un racconto di Giose Rimanelli che parla dei primi stormi di emigranti che si perdevano, come folaghe in autunno, nei campi arati del mondo. E un giorno di gelo verso la fine del ‘59 vidi lo stesso Rimanelli abbordare un aereo per le Americhe e non tornare più. Ognuno parte per un dolore ricevuto, o per una speranza da realizzare. Ma lasciare, verbo che implica "perdita", spesso nient’altro significa che morire, e solo per qualcuno - prescelto, forse predestinato - il miracolo di Lazzaro torna a riaccendere.







Io non tardai a seguire Giose. Prima Canada, poi Stati Uniti, poi Messico, poi Caraibi, poi di nuovo e per sempre Messico e Stati Uniti. Terre di viaggi e spirituale conoscenza dove, comunque, come per miracolo o incanto, ci siamo sempre ri-trovati perché lui aveva sempre fatto il passo prima di me.

Ma, mi chiederete, perché iniziare questo discorso con il nome di un uomo tanto più noto di me, e di me persino tanto più travagliato? Perché proprio lui mi ha insegnato, attraverso gli scritti e la pratica di vita, che l’autobiografia è arte e mito, è teoria e rappresentazione. E del resto, è sempre lui l’originatore di qualcosa. E’ stato lui infatti a invitarmi a questo Convegno nel Molise. Telefonandomi dalla sua casa di Albany, le sue parole sono state queste: "Racconta la tua storia, e quella dei molisani nel mondo, da riportare a casa, da far riudire. Nessuno è morto per sempre se noi, da buoni taumaturghi, riusciamo a riconoscere il seme, e ridargli il nome perduto."

Io mi sono guardato allo specchio e non ho visto niente. Anzi, ho visto una certa nebbia con gli occhi imbronciati, masse di persone nei boccaporti del mondo che ho viaggiato, e voci gridate o afone, i dialetti del Sud in genere e, finalmente, il dialetto che mi è più familiare, quello molisano, che spesso mi arrivava tradito o confuso con provenienze diverse, l’Abruzzo per esempio. Emigranti alla ricerca perenne del Nuovo Mondo, come Colombo, spesso sbagliando porta e indirizzo d’origine. Sei genovese o spagnolo? Sei molisano o abruzzese? La tragedia è soffusa d’ironia ed equivoci, ma la coscienza di esistere e permanere è più forte delle notti digiune. Lo specchio a mano a mano si libera delle sue ombre. Guardo me stesso e riconosco in me il tipico soldo di cacio che partendo dal Molise aveva detto a se stesso, come in una liturgia: "Odorerai le mense, cambierai dal bianco al bronzo, dal bruno all’oro: e ti moltiplicherai!"

E’ poi vero? Forse che sì, forse che no. Prendo la frase del nostro eroe vicino, quel D’Annunzio che da bambini ci ha fatto tanto soffrire. Ma il soldo di cacio ora fa costruire navi, le riempie di personale e di passeggeri. Rimanelli, che dedicò un capicolo di Molise Molise a questo soldo di cacio, riferisce che ai viaggi diurni sulle navi più splendide del mondo, questo molisano che si guarda allo specchio diventa, al crepuscolo, salamandrandosi, scrittore notturno di avventure esistenziali con probabile, e forse anche improbabile, validezza letteraria. Ma perché? Perché l’azione è industria, e questo molisano che ora vi parla ha saputo sempre industriarsi.

E’ sotto questa luce che vedo personaggi degni di essere narrati. E il pensiero corre subito a un religioso, Padre Raffaele Piperni. Ma non siamo tutti, noi emigrati molisani, nel firmamento incommensurabile preso a destino, dei missionari d’emigrazione? Religiosi con e senza chiesa. Ma Padre Piperni aveva la chiesa in sé, nel suo grande cuore, e ne costruì poi di quelle vere, di granito, sulla sabbia della terra. Poiché emigrazione viene anche a significare missione. E la missione ha il ricordo, ha radici nel passato.

La nostra esperienza non ci sarebbe mai stata possibile senza il convesso riflesso della storia dei nostri antenati. Chi erano? Chi siamo? Loro sono stati i pionieri, ed è attraverso le loro storie da focolare che anche il legno verde della nostra esistenza si è acceso, e gli orizzonti si sono aperti. Sono state le loro favolose storie a indurire la nostra illusione, un Eldorado da costruire più che conquistare, là fuori, nell’ignoto verosimile, con noi portando una primigenia signoria: l’industriosità, l’adattabilità, lo scrupolo, il sacrificio, la parola, la segreta sprofondata nostalgia del taglio, le radici lontane.

Ho detto industriosità, adattabilità, scrupolo, sacrificio, parola: termini non sufficientemente qualificabili nel nostro mutismo stoico di terragnoli, sempre un pò timidi e scontrosi quando inchiodati alla nostra terra. L’apertura però, il rilancio, la metamorfosi avviene dopo, sulle terre d’emigrazione o missione, quando quella madre terra che ci ha fatti timidi e scontrosi è ormai lontanissima se non proprio perduta. Ho cercato di raffigurare questi carismi nel personaggio Onofrio Annibalini del mio romanzo La Giobba, il quale passa di disgrazia in disgrazia nel disperato tentativo di abituarsi non solo a una terra straniera e poco accogliente, ma anche a gente una volta del paese, proprio come lui, ma che ha già subito prima di lui una metamorfosi rocambolesca, percorrendo gli stadi d’obbligo da ignoranza a coscienza, da mutismo a parola, da sopravvivenza ad adattamento, quindi accettazione e, infine, missione per sé e famiglia, per la patria adottiva e quella abbandonata, forse ora ritrovata, sulla via crucis della identificazione.

Ma eccoci a Padre Piperni. La sua storia è più unica che rara, ed illustra meglio di qualsiasi altra storia lo spirito industrioso del molisano che si è avventurato nel mondo. Mi trovavo a San Francisco verso la metà degli Anni Settanta, alla ricerca di un prete che potesse fungere da cappellano a bordo di una delle navi della compagnia di navigazione per la quale lavoravo, la Princess Cruises di Los Angeles. Mi recai come primo dovere a una cattedrale che mi era stata indicata come cattolica. Senza saperlo, nel varcarne la soglia entrai di tonfo nell’opera maestra di un corregionale. A farmelo notare fu il sacerdote che poi contrattai per le funzioni da cappellano, un certo Padre Di Martino.

Dopo le presentazioni, questi mi chiese da dove venivo. Ed io mi scusai, un pò come facciamo tutti noi molisani nel mondo, perché il Molise non lo conosce nessuno. Dissi perciò: "Un piccolissimo paese, una regione che americani e italo-americani non conoscono." E lui di rimando, quasi con ironia: "E dove sarebbe questo piccolissimo posto che nessuno sa?" - "Casacalenda, Molise," dissi in un soffio, sapendo di aver graffiato un muro sordo. Ma gli occhi di lui si riempirono di luce, la sua bocca si allargò in un sorriso dall’altar maggiore al portone d’uscita. "Figliolo," lui disse, "quando hai messo piede in questa chiesa, hai inconsciamente varcato la soglia di casa tua. Questa chiesa, e tutta l’opera salesiano della California, anzi degli Stati Uniti, è il monumento a un molisano e al Molise."

Vi sono tante storie di missionari italiani nel cosiddetto Nuovo Mondo. Subito dopo la fondazione degli Stati Uniti, i Lazzarini costituirono il primo e più numeroso gruppo di missionari italiani. Poi vennero i Francescani, i Passionisti, i Gesuiti naturalmente, e quindi i Salesiani. I missionari erano, oltre che sacerdoti, medici, educatori, studiosi delle lingue indiane, mediatori e pacificatori tra bianchi e pellirosse, agricoltori e architetti, fondando ospedali, università,, chiese e città. Vi sono moltissimi nomi che risplendono nel firmamento della missione-emigrazione italiana in America. Padre Piperni, che portò Don Bosco negli Stati Uniti e nel Messico, oltre che in Terra Santa, è tra costoro.

Nato a Casacalenda nel 1942, e deceduto a San Francisco nel 1930 alla bella età di 88 anni, Padre Piperni nel 1876 venne destinato alle missioni di Terra Santa ove si trovò presto di fronte al dilemma causato dall’infinita povertà che regnava nei dintorni di Betlemme e Gerusalemme: uno stuolo di bimbi abbandonati al loro destino, orfani in gran parte, e perciò bisognosi non solo di affetto ma soprattutto di un tetto e del pane quotidiano. "Pane che" commentò Padre Di Martino, "non poteva essere reperito in quella terra santa ma povera, più povera della povertà stessa."

Cosicché Padre Piperni, incoraggiato da un suo compagno, Padre Belloni, si avviò nelle Americhe per raccogliere fondi necessari alla costruzione di un orfanotrofio in Terra Santa. Dopo giri e rigiri arrivò a Chicago, e pensò di aver ormai raggiunto l’altra sponda dell’arcobaleno sognato. Ma la strada della fortuna non esiste, le porte gli si chiusero sugli occhi prim’ancora di bussare. Lo stesso arcivescovo di Chicago minacciò di farlo arrestare per vagabondaggio se in 24 ore non avesse abbandonato la città.

E Padre Piperni andò via. Aveva sentito dire che la California era la terra dell’oro e dell’opportunità. Decise quindi di recarvisi per vedere se d’oro ve ne fosse almeno un pochino per i suoi orfani di Terra Santa. Trovò soltanto amarezze, per cui riprese il suo pellegrinare recandosi prima nel Missouri, quindi a New Orleans al tempo in cui la febbre gialla decimava la città. Si fermò ad assistere gli ammalati e seppellire i morti, fin quando lui stesso s’ingiallì di quel morbo. Ma si riprese in due mesi, si rimise in cammino, questa volta per il Messico. Lui andava sempre avanti col "sentito dire" che rinfocolava le speranze. E aveva sentito dire che in Messico la popolazione era devotamente cristiana. Di certo, si disse, offerte per la Terra Santa non sarebbero mancate.

Arrivò a Città del Messico nel dicembre del 1878, e come prima cosa venne colpito dallo splendore di quella città, con chiese e teatri gotico-baroccheggianti, lussuosi negozi e attrezzatissime scuole, e venne colpito dalla fraterna accoglienza della gente e dell’arcivescovo che lo aiutò subito, insegnandogli prima lo spagnolo e poi offrendogli la possibilità di usare la sua chiesa per predicare l’opera di Terra Santa. Il successo del predicatore improvvisato Padre Piperni fu tale che, ben presto, altri parroci se lo contesero. Passava di paese in paese, di città in città, sempre atteso, sempre ben accolto e preceduto dalla sua fama. Girò così per dodici lunghi anni coprendo tutto il vasto territorio messicano, difendendosi dalla massoneria da una parte e dalle malattie tropicali dall’altra. In quei dodici anni però raccolse tanti pesos da riuscire a tenere in vita non soltanto l’opera della Santa Famiglia, ma anche ad aprire una scuola agricola, un esternato a Betlemme, una chiesa dedicata al Sacro Cuore di Gesù, e una terza scuola a Cremisan.

Rientrò in Italia nel 1892 e decise di abbracciare l’ordine dei salesiani appena fondato da Don Bosco, al quale era accomunato da un reciproco senso di ammirazione. Ricevette presto un nuovo e difficile incarico, poiché i suoi superiori avevano subito capito che l’arte di arrangiarsi era per Padre Piperni come una seconda natura: portare la congregazione salesiana in Messico, dove lui aveva già riscosso tanto successo. Qui fondò la prima Casa Madre, a Città del Messico, poi una a Puebla che venne presto arricchita di una scuola di arte e mestieri, di un ginnasio e di una tipografia, la prima che quella città avesse mai visto.

Pareva proprio che Padre Piperni, con la sua arte di arrangiarsi, producesse miracoli concreti di vitalità e industria. Qualche anno più tardi gli venne ordinato di andare ad arrangiarsi di nuovo, questa volta a San Francisco, una città che lui già conosceva ma dalla quale non aveva estratto nessun oro. Vi trovò, quando vi arrivò per la seconda volta, soltanto molta apatia: la comunità italiana era non solo apatica, ma liberale e anticlericale. La chiesetta di San Pietro e Paolo, che gli era stata affidata, era abbandonata e cadente. Spettava a lui rimetterla in ordine, spettava a lui arrangiarsi. E lui si arrangiò, naturalmente: prima da solo, poi cercandosi aiuto tra i derelitti e i rifiuti. Crebbe così, intorno alla sua chiesa, la nuova comunità italiana, e presto nacque la necessità di costruire un’altra chiesa, più vasta e fastosa, che fu chiamata del Corpus Christi. Quella di San Pietro e Paolo venne in seguito distrutta dal terremoto del 1906, ma Padre Piperni la ricostruì, e con essa costruì anche l’opera maestra, la Cattedrale Salesiana, inaugurata nel 1912 ma completata nel 1924, e che a tutt’oggi è la più bella chiesa di San Francisco, infatti, monumento storico per quella città.

L’opera di Padre Piperni continuò, naturalmente, e la congregazione salesiana, da lui iniziata ai primi del secolo, oggi prevale come l’ente religioso più rispettato di tutta la California. Di Padre Piperni, venerato ormai come santo e taumaturgo, dicono che non c’è mai stato bisogno di erigergli un monumento in quanto, ripetono, "se cerchi il suo monumento, guardati attorno." Si quaeris monumentum, circumspice.

E’ storia viva, nella quale mi sono imbattuto per caso, risparmiandomi l’onere di laboriose e puntigliose ricerche. Queste se mai, se l’è assunte Giose che dalla sua cattedra di Albany ha squillato la tromba ai quattro venti, alla ricerca dei molisani. "Il Molise è il Molise, e i molisani sono molisani, non abruzzesi."

Ma come stanarli, come riconoscerli, come dargli il senso storico della loro identità? E questo, mi pare, è il tema profondo di questo Convegno a Campobasso, con la partecipazione di studiosi plurilongitudinali ma anche di semplici, laboriosi molisani del Nuovo Mondo come quest’uomo che vi parla. Giose li ha scoperti in accademia e nelle industrie, me ne ha fatto anche i nomi. Gente che, una volta riconosciuta, riporterà il suo obolo di gratitudine alla Regione che li ha partoriti, la terra dei natali o degli antenati, poiché le generazioni si accavallano alle generazioni, e ciò che a noi preme incidere sulla lastra del tempo è che ricordare significa anche ritrovare, e ritrovare è come vivere di nuovo.

Ho incontrato diversi molisani, di talento e cuore, che qui mi piace menzionare. Uno di essi, umile e schivo, è nato a Vinchiaturo ma da ragazzo approdò in Canada con la famiglia: l’esodo del dopoguerra di cui ci dà un’immagine tragica Giose Rimanelli con "Peccato Originale". Fu proprio Rimanelli che lo trovò, ragioniere nell’azienda di importazioni olearie Gattuso a Montreal, invitandolo a collaborare con qualche articolo al "Cittadino Canadese" che lui stesso diresse per alcuni mesi nel ‘53. Quando Ciamarra raccolse l’invito, Rimanelli era già sul piede del ritorno in Italia per la pubblicazione di Tiro al Piccione. Nick comprò il giornale, rinvigorì la redazione, comprò tempo pubblicitario alla radio e alla televisione, emerse nella colonia montrealese intorno a Dante Street come un possibile leader politico. In queste condizioni di avanzato successo lo trovai quando, a mia volta, approdai a Montreal. Erano tempi pionieristici, quelli: si mangiava ancora pane e cipolla. Gli hamburgers e le pizze vennero dopo. E anche lo champagne. Fu il "Cittadino Canadese" di Ciamarra che ospitò il mio primo racconto d’emigrazione, l’Onofrio Annibalini.

E come spesso accade, il mistero non ha volto, ti si apre nelle mani. Un altro incontro significativo ha luogo durante uno dei miei viaggi in Alaska, a bordo di una delle navi della Princess Cruises. Un passeggero italiano aveva sentito dire che su queste navi c’erano centinaia di lavoratori italiani, voleva incontrarne qualcuno delle sue parti per ammazzare la nostalgia. Chiese in giro se c’era un abruzzese, e lo mandarono da me, forse perché mi conoscevano come tale. Ma a quest’uomo io dissi "Mi dispiace, ma io non sono abruzzese, sono molisano". E lui rispose "Per carità, anzi meglio, anch’io sono molisano ma ho chiesto di un abruzzese perché, tanto, il Molise non lo conosce nessuno." Era un certo Gaby Di Iorio, di Morrone nel Sannio. Era uno specialista in dinamite. "Non sono un terrorista," disse subito, ridendo. Era in cima alla lista del Governo Canadese perché la sua professione era quella delle pinze: con la dinamite spaccava montagne, faceva sgorgare l’acqua dove non c’era acqua, e sapeva dove trovare l’oro e l’amianto.

Prima di entrare nel cuore dell’Alaska, la nave doveva passare per uno stretto, tipo Canale di Panama, che era stato creato dalla montagna con esplosioni di dinamite. Si tratta del Passo di Seymour. E lui disse: "Così è. Ma dovrebbe portare il mio nome." Non seppi frenare la tentazione di dirgli, "Ma perché non sposti allora Morrone che è sempre davanti alla mia finestra casacalendese, per depositarlo nel fondo valle del Biferno?".

Gaby Di Iorio ha sempre un fiore giallo all’occhiello della giacca. "E’ la ginestra del Molise," mi disse.

E poi c’è quest’altro incontro, dei primi degli Anni Settanta. C’era una grandissima carenza di petrolio nel mondo, e noi per comprarcelo avevamo bisogno di continue infusioni di lettere di credito garantite dalle banche più quotate. Un cruccio che comunicai a un mio amico di Los Angeles, un certo Pasquini che produce un caffè espresso assai raffinato per i tycoons di Beverly Hills. "Non preoccuparti," Pasquini disse. "Ti presento a un amico che è vice presidente di una banca." E l’amico un giorno accettò l’invito a cena: era un alto funzionari della First Interstate Bank e si chiamava Steve Crivelloni. Dal nome seppi subito, d’intuito, che era molisano. "‘U crevielle," gli dissi, in dialetto. Lui non sentì, o forse finse, perché disse, "What?" Gli chiesi da quale paese veniva la sua famiglia, e lui disse che non lo sapeva, era in fasce, quando i genitori lo portarono negli Stati Uniti. Ma ricordava di aver appreso che quel suo paese nativo in inglese si traduceva in tre parole: "Sing the wolf". E allora scoppiai a ridere. "In italiano è meglio detto in una sola parola," gli dissi. "E’ Cantalupo. Cantalupo nel Sannio." Dopo di che il molisano Crivelloni mise la sua banca a completa disposizione dei nostri più immediati bisogni.

Sembrano aneddoti da dopo cena. Ma io, nei miei incontri, passo sempre dalla cena al dopo cena.

L’ultimo aneddoto, per concludere - ma questi aneddoti non sono - mi riporta di nuovo a Casacalenda, strano paese, dove una frana è da decenni in agguato, e da dove i più van via ma non senza lasciar memoria del loro viaggio. E qui indico Pietro Molino: il genio dell’intelligenza artificiale, che programma con computers l’impero di un’azienda editoriale internazionale che in Italia prende il nome di "Selezione." Pietro Molino arrivò a Montreal verso la metà degli Anni Cinquanta, con la speranza di far subito fortuna e tornarsene al paese: cosa di cui qualcuno lo redarguì, essendo la fortuna lavoro e tempo, non impazienza e miracolo. Tra l’altro, Pietro Molino aveva cercato la fortuna in un’acciaieria, dove la vita è sempre breve. Finì, infatti, in ospedale. Qui lo squartarono, gli tirarono fuori il cuore che quasi non batteva più, e glielo rimisero dentro con tubi e valvole. Tornare in Molise con il cuore a valvole? Tornò invece a scuola, per crearsi un posto "dietro" la scrivania. E lo trovò, ma era poco: la fortuna non è mai dietro una scrivania. Studiò i computers, in un’epoca in cui gli altri ne parlavano soltanto, con scetticismo. Oggi Molino è il dirigente di tutte le operazioni computers del Reader’s Digest in Canada, e dal Canada viene inviato in tutto il mondo, ovunque il Digest ha il suo grande zampino, Italia compresa.

Chi sono i molisani?

Carne sofferente, perduta, scrisse Giose. Ed aggiunse, anche, con accuratezza: "Non sono una nazione e nemmeno una regione. Sono un seme certo, profondo, araldico."


1 commento:

Guido ha detto...

Che emozione rileggere queste belle parole che ho sentite nell'87 al convegno dalla viva voce dell'indimenticabile Pietro Corsi, mi sono commosso. Guido da Campochiaro