sabato 5 novembre 2011

CHIAPAS: IERI, OGGI


Mazatlán, Sinaloa, Messico. Gennaio, 1998. - Mi sono avventurato per la prima volta tra le foreste del Chiapas verso la metà del lontano 1961. In quei giorni di pazzie di gioventù, ero spinto dal desiderio di conoscere più a fondo la civiltà Maya che aveva popolato quelle millenarie foreste tropicali fino all'arrivo del conquistatore. Con me c'era Giose Rimanelli, che mi aveva raggiunto da New York per una vacanza al sole. La nostra guida era un giovane rivoluzionario, Jorge Olvera, studente di medicina presso l'Università Autonoma di Città del Messico. Dopo gli incidenti del 1968, che sconvolsero il cuore stesso della nazione, di lui ho perso ogni traccia. Se l'è portato via il vento? O è stato chiamato a versare il suo sangue sulla Piazza delle Tre Culture, come centinaia dei suoi coetanei? O deve essere considerarlo un semplice "desaparecido", come tutti quei giovani che vollero inutilmente lottare per un nuovo ordine, un nuovo Messico?

Non lo saprò mai. Mi ricordo però di lui oggi, perché lui mi ricorda il Chiapas di ieri.



Sotto l'abile guida di Jorge Olvera raggiungemmo Veracruz, prima tappa del nostro viaggio, in un autobus di prima classe della linea Tres Estrellas de Oro: autista in livrea, aria condizionata, servizio bar. Prima di ripartirne avremmo intervistato Agustín Lara (indimenticabile autore delle più romantiche canzoni messicane, inclusa), Giose per il suo diario di ricordi, io per Il Cittadino Canadese di Montreal. Ripartimmo da Veracruz sempre in autobus, ma già senza l'autista in livrea, senza l'aria condizionata e, ahimè, senza l'ambito servizio bar. La nostra prossima tappa sarebbe stata Villahermosa, dove avremmo esplorato il mondo della civiltà Olmeca così come rappresentato presso il museo naturale conosciuto col nome di Museo de la Venta, ricreato a spese della compagnia petrolifera Pemex a cambio di terreni appartenenti alle generazioni di indigeni che da sempre li avevano abitati. Da lì si doveva proseguire in treno fino a raggiungere Alvarado, la penultima tappa del nostro viaggio. Ricordo che Jorge Olvera mi disse che per chi andava a Palenque, il passaggio per Alvarado era d'obbligo perché lì finiva il Messico progressista e civile, lì si chiudeva il mondo, e lì s'era fermato Cristo. Lasciando Alvarado, mi aveva precisato, si lasciava la terra dei vivi per entrare in quella dei morti. Come avrei dovuto scoprire, "i morti" ai quali lui voleva riferirsi non erano soltanto i Maya che io cercavo, ma anche i loro discendenti e le altre popolazioni indigene che in quel Messico vivevano: "morti" nel cuore di chi, dalla Capitale, avrebbe fatto di tutto pur di mantenerli nella loro posizione di emarginati.

Da Alvarado riprendemmo il cammino in jeep, e con una buona scorta di chinino per combattere la malaria ed un po' di cibo in scatola. Ma fu a dorso di cavallo che arrivammo a Palenque. E mentre in autobus prima poi in treno poi in jeep poi a dorso di cavallo si avanzava verso quella nostra meta, io vedevo solo paesaggi meravigliosi, indimenticabili, sterminate estensioni di terreno coltivate a granoturco con piante che si ergevano ad altezza d'uomo ma tutte uguali, uniformi, e poi ancora banane a non finire fin laggiù, laggiù sull'orizzonte lontano. E vedevo, anche, peones ed indios che sostavano sui cigli polverosi della strada in attesa di un patrón che venisse a contrattarli per una giornata di lavoro; ed altri ancora, i più fortunati, che andavano già per i campi con il machete che scintillava sotto i raggi infuocati di quel sole. Sia che fossero lì ad aspettare, sia che fossero giù per i campi, i loro volti erano sempre del colore della terra. E la terra, lì, era secca e piena di crepe. Gli uomini indossavano lunghi pantaloni di tela bianca raccolti attorno a sandali di gomma; le donne invece erano scalze, vestivano panni pesanti ed i loro capelli sciolti ed unti cadevano nello stesso scialle legato alle spalle in cui si dimenavano piccoli esseri umani ignari del loro destino. Ed erano belle anche, quelle donne: emanava, dal loro essere, una bellezza per me trascendentale forse a causa della loro stessa sofferenza che non riuscivo a capire, o a causa del loro mutismo dietro il quale non ero ancora riuscito a leggere.

Mi ci vollero ben quattro giorni per raggiungere il Chiapas da Città del Messico. Oggi il Presidente Zedillo vi si potrebbe recare in meno di un'ora, comodamente disteso su una poltrona d'aereo, per rendersi conto della triste realtà che coinvolge quei suoi dimenticati concittadini. Invece il suo esercito della morte raggiunge quella zona del travagliato Messico con ogni mezzo possibile ma sempre pronto, subito cioè, quando qualcuno che comanda sente odor di fastidio.

Mi ricordo del desaparecido Jorge Olvera. Mi ricordo di un ieri lontano, lontano negli anni, trentasette anni or sono. E mi chiedo: qualcosa è cambiato?

Sono tornato in Messico dal mio lontano Molise pochi giorni fa. Sfoglio le pagine dei primi giornali che mi passano tra le mani e vedo fotografie di indios e peones con i volti abbronzati del colore della terra, secca e piena di crepe; vedo le loro donne scalze e con i capelli sciolti ed unti che cadono nello scialle legato alle spalle in cui continuano a dimenarsi piccoli esseri umani ignari del loro destino. E sento una voce lontana che vorrebbe essermi vicina ed amica: mi dice che niente è cambiato.

Resta solo la speranza. A ravvivarla, tre Premi Nobel per la Pace, Oscar Arias Sánchez, il Dalai Lama ed il Rev. Desmond Tutu (10987, 1989, 1984), membri del Comitato Internazionale del Consiglio per la Pace, qualche giorno fa hanno sollecitato il governo di Zedillo a negoziare ("in maniera onesta", hanno sentito la necessità di sottolineare) con la guerriglia zapatista e lo hanno accusato di non essere ancora riuscito a riconoscere le popolazioni indigene di quell'immenso e disperato paese. Ed il Comitato da loro rappresentato chiede a Zedillo di attenersi agli accordi di San Andrés Larrínzar firmati con l'EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) ed intesi a riconoscere ufficialmente l'autonomia indigena.

"Siamo tristi e contrariati al notare che durante lo scorso anno la violenza e la sofferenza sono aumentate nel Chiapas. Gli accordi di San Andrés non sono stati implementati e il governo messicano non ha mantenuto la sua promessa di riconoscimento delle polazioni indigene," il Comitato ha concluso.

Per tutta risposta, il Presidente Zedillo ha fatto presente che la soluzione ai problemi degli indigeni messicani "non sarà mai nel trattarli in maniera diversa".

Queste poche parole, pronunciate forse con incredibile leggerezza, annunciano che la speranza è destinata ad annegare in un mare di lacrime perché oggi come ieri, gli indigeni continuano ad essere trattati in maniera diversa. Da indigeni, precisamente: così come vennero trattati dal conquistatore spagnolo. E come il conquistatore spagnolo aveva già fatto cinquecento anni or sono, oggi continua a fare l'esercito messicano: per completare l'annientamento delle popolazioni indigene quando non a mezzo di armi, a mezzo di un metodo ancora più atroce: l'indifferenza al cospetto dei loro immensi problemi di emarginati costretti a far posto al processo di civilizzazione, senza il compromesso dell'integrazione in un paese che, pur essendo socio degli USA e del Canada in un trattato inteso ad ammetterlo con onore nel mondo industriale, pretende di guardare al domani con cuore sereno.

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