domenica 20 giugno 2010

Il suono delle campane, short story di Pietro Corsi

Trascinandosi dietro la valigia a rotelle, il Viaggiatore si incamminò lungo la strada che dalla stazione ferroviaria portava al centro storico. Di quella strada conosceva ogni pietra, e delle mura delle case allineate sulla sinistra, come muraglia a protezione dell’abitato, conosceva ogni fessura.

Il suo sguardo andò a posarsi sull’orto, alla sua destra, tra la strada e la ferrovia. E notò, con tristezza, che quella fonte di vita era ora morta. Un giorno, quell’estensione di terreni ai piedi del paese era stata coperta di verde e di oro, dei colori più vivi e più belli della natura. Aveva rifornito ognuno degli abitanti del paese di frutta e di verdure: aglio e cipolla e spinaci, lattughe e cetrioli con i loro fusti vellutati, sedano e prezzemolo con le sue foglioline frastagliate e lobate, basilico, rosmarino, finocchio dolce dalle guaine carnose e bianche, scarola, cime di rape e frutti di stagione. E fiori, fiori di ogni colore per i vivi, crisantemi per i morti.

In quell’orto veniva coltivato di tutto e tutti vi accorrevano per le necessità giornaliere delle loro cucine e delle loro mense. Le donne ci si recavano di mattina presto, facevano la fila e aspettavano pazientemente, chiacchierando di questo e di quello, dei fatti di casa, spesso dei fatti della casa d’altri. Quando arrivava il loro turno chiedevano cosa c’è, cosa c’è. Gli ortolani erano sempre allegri, rispondevano cosa volete, cosa volete: perché tutto c’era, in quell’orto, bastava solo chiedere. Le donne chiedevano questo e chiedevano quello; i giardinieri annuivano, si allontanavano. Andavano a cogliere questo e quello, li mettevano nel grembiule delle massaie e delle serve dei signori. Riscuotevano il giusto prezzo e mettevano i quattrini nelle loro capienti sacche, oppure segnavano con un mozzicone di matita, su un pezzo di carta, il nome della cliente e l’ammontare dovuto, che veniva riscosso a fine mese o a fine anno, a seconda dei casi e della famiglia debitrice.

Arrivò il giorno in cui la gente del paese cominciò a seguire il richiamo di terre lontane che promettevano il chiarore che precede il sorgere del sole, l’aurora, la vita nuova. I primi ad andar via furono i giornalieri e i braccianti, seguiti dai contadini che non avevano terre da coltivare, poi anche da quelli che avevano terreni in proprio. Senza braccianti e senza contadini a cui rendere i loro servizi, anche gli artigiani presero la coraggiosa decisione di seguire quel richiamo pur non sapendo, esattamente, cos’era. Ma un richiamo era, e bisognava seguirlo. A loro volta furono seguiti da quanti, sconsolati, erano stati ammaliati non dal richiamo, ma dall’idea della salvezza.

In paese, dunque, non c’erano più giornalieri, non c’erano braccianti, non c’erano contadini per i campi e le botteghe degli artigiani erano vuote, chiuse. Mentre un giorno, per le strade, si udivano le carezzevoli note dei violini provenienti dalle botteghe dei barbieri, e il dolce suono delle chitarre che piangevano in quelle dei sarti, e le fisarmoniche dei contadini che allegramente intonavano La Gazza Ladra o Il Carnevale di Venezia, o qualche improvvisato tango argentino, ora quelle stesse strade erano abbandonate: non si udiva altro che il silenzioso trascorrere dei minuti e delle ore, del giorno senza un domani.

E dove una volta si udivano fabbri e ferrai che forgiavano il ferro per un’inferriata o per le calzature dei cavalli, e le seghe dei falegnami che lavoravano il legno grezzo per costruire i mobili dei braccianti dei contadini e degli artigiani, e calzolai che temperavano la pelle di vacca per le suole delle scarpe e la pelle di capretto per le tomaie con i loro ben calibrati martelli a testa quadra e a testa tonda, ora non si udiva altro che il quieto vociare di qualche vecchia distratta che, senza saperlo, a voce alta faceva, a se stessa, come una pazza, domande che non avrebbero mai trovato una risposta.

L’orto del paese, che era stato l’orto di tutti, non c’era più. Abitato da erbacce e da inutili piante spontanee, da spietati topi di campagna, l’orto era morto. Persino gli alberi da frutta, specie quelli di fichi, avevano perduto la loro forza. Emanava, dai loro rami cadenti, dalle foglie smorte e ritorte, un odore asprigno selvatico che ricordava l’abbandono.

Più su, prima della curva, da un cunicolo aperto che, scendendo dalla montagna, attraversava i campi a monte e passava sotto la strada prima di raggiungere la ferrovia e i campi a valle, una volta scorreva un’acqua limpida e fresca, chiara come acqua di sorgente. Andava a lambire le radici degli ortaggi dando loro forza e vita, inebriandoli di sapori conosciuti, familiari, i sapori di casa. Ora non più. Non c’era più acqua e il cunicolo, secco, era anch’esso infestato da erbacce e da animali.

Mentre il Viaggiatore osservava quell’abbandono, un velo di tristezza andava a coprirgli il cuore che palpitava e si fermava, riprendeva a palpitare più forte, e con tristezza cercava di richiamare alla mente i giorni migliori che il paese aveva vissuto: con il chiassoso bufù di fine anno, l’Epifania e la Pasquetta, i fuochi di Sant’Antonio Abate, il proverbiale convivio di San Giuseppe con Giuseppe e Maria, i più anziani del quartiere, e gli apostoli, i più giovani; gli affollati forni a legna ai quali accorrevano le casalinghe per il pane per la pizza per i dolci; e la mietitura e la trebbiatura, e il raccolto dell’uva e dell’oliva; le strade affollate dopo la messa domenicale, i signori che uscivano per farsi vedere dai loro mezzadri e quelli, i mezzadri, i contadini, vestiti a festa come se stessero per andare a un matrimonio. Ricordi sbiaditi, dileguati in un curioso, quasi morboso desiderio di dimenticanza. Come se, insomma, dimenticando, tutto potesse tornare, infine, come una volta.

Aveva appena cominciato a risalire su per la Terravecchia, da sotto l’antica arcata del Palazzo Ducale, quando fu raggiunto dal familiare suono delle campane. Veniva dalla torre campanaria della chiesa madre, lì a due passi da dove lui si trovava. Din-don; din-din-don, din-don. Le campane ripetevano quel suono prima lentamente poi più in fretta, sempre più in fretta. Le note si susseguivano con dolorosa cadenza, un lamento.

Il Viaggiatore non tardò a riconoscere il significato di quel lamento. Era nato ed era cresciuto all’ombra di quelle campane. Da bambino il sacrestano lo aveva invitato a suonarle per ognuna delle occasioni del giorno: a messa la domenica e ogni sera della settimana, ad acqua con l’avvicinarsi di un temporale, a ventunora per richiamare i contadini a casa, e a festa quando tutte e quattro scampanavano allegramente per la gioia dei festanti. Le aveva suonate anche a morto in qualche occasione osservando, diligentemente, la giusta sequenza dei din e dei don: non potevano esserci errori, lo ammoniva il sacrestano, prima di affidargli quel compito riservato al sacro rito dei morti.

Sapeva perciò che quei dolorosi din-don che si susseguivano con monotona e dolorosa cadenza venivano da due delle quattro campane: il din, un suono timido ma penetrante come un ago, una lama, veniva dalla campana piccola che dava in direzione della stazione; il don invece, un suono imponente, prepotente quasi, veniva da quella più grande che dava sulla Terravecchia. Venivano suonate in quel modo per avvertire la cittadinanza che c’era un morto in paese. La chiesa madre annunciava che uno dei suoi figli aveva intrapreso l’ultimo viaggio. La chiesa madre aspettava un morto, aspettava il suo morto.

Il Viaggiatore risalì, sulla sinistra, la scalinata che dal portone d’ingresso portava alla sua casa, al primo piano. La scalinata a destra portava invece alla casa di suo nonno che aveva seguito il suono delle campane anni prima, prima ancora che lui lasciasse il paese, prima ancora che lasciasse l’Italia per andare incontro al suo incerto destino di migrante senza viso e senza nome, ombra che seguiva altre ombre, a sua volta seguita da ombre in un mondo di ombre.

Fino a qualche anno fa, in quella casa c’era stata sua madre. Anche lei aveva seguito il suono delle campane. Prima o poi tutti seguivano il lugubre richiamo di quelle campane ed entravano in chiesa, venivano portati in chiesa, la loro chiesa. Da lì, attraversavano il paese dal basso in alto, poi da quell’alto proseguivano a sinistra lungo un tratto della SS 87 fino all’uscita dal paese e si affacciavano sulla porta dei cipressi che adornavano i vialoni del camposanto, l’uscita dal mondo.

Il din-don continuava, monotono, riverberava tra le mura delle stanze vuote. Il Viaggiatore sapeva che quella cantilena poteva durare anche dieci, quindici minuti; e quei dieci, quindici minuti avevano il sapore dell’eterno. Quello che non sapeva, che non poteva sapere ancora, era l’identità del morto. Quando anche gli avessero fatto un nome, pensò, con tristezza, non lo avrebbe riconosciuto. Con rabbia, riconosceva il viso della gente che incontrava per strada, ma non anche il nome, non anche i nomi dei suoi concittadini. Anonimo nel suo nuovo mondo di migrante, quando tornava in paese si ritrovava, anche lì, in un mondo senza nome.

Il Viaggiatore andò alla finestra che dava sulla Terravecchia, la aprì facendo attenzione di non scuoterla troppo. E si ricordò che aveva bisogno di essere riparata, o rimpiazzata. Si affacciò, per vedere se passava qualcuno a cui chiedere notizie del morto. Non passava nessuno. Le campane avevano smesso di suonare. Di lì a poco il morto sarebbe arrivato in chiesa.

Anche la mamma del Viaggiatore si affacciava sempre a quella finestra per vedere se passava qualcuno. E se qualcuno passava, chiedeva cosa c’era di nuovo. Ora sua madre non c’era più. Anche lei aveva seguito il richiamo dei din e dei don delle campane. Con un senso di colpa nel petto, la colpa sempre presente nel petto di ogni migrante, lui era tornato, l’aveva accompagnata lungo il vialone dei cipressi.

Vide una vecchia che svoltava l’angolo della chiesa, gli parve di riconoscerla. Non ne ricordava il nome però. Aspettò che arrivasse sotto la finestra, certamente lei doveva sapere chi era il morto. Poggiata a un bastone, la vecchia camminava a passo lento. Era vestita di nero, come tutte le donne della sua età, e camminava lentamente avanzando con il suo bastone che faceva tic sui sanpietrini, poi tac, segnando così, con quel suono, ognuno dei suoi passi lenti, lenti come una notte senza luna, una giornata senza sole. Tic... tac... Era un suono breve e secco, metallico. Rimbombando nel vuoto silenzio della Terravecchia ricordava, chissà perché, l’abbandono. Tic, il bastone faceva. Poi, tac. Al tac la vecchia fermava il passo stanco, riposava, poi di nuovo tic.

“Chije è, ù mùorte, chije è?” Il Viaggiatore chiese, quando la donna fu sotto la sua finestra, chi è, chi è il morto.

Il bastone si fermò sul tic e lui restò in attesa del tac, che non ci fu. Con un gesto stanco, raddrizzandosi con le due mani poggiate sul bastone, la donna alzò la testa per vedere chi le parlava, chi le chiedeva informazioni sul morto. Riconobbe il Viaggiatore, un sorriso raggiante le apparve sulle labbra raggrinzite dandole grazia e dignità.

“Ah,” disse. “Sié tu, sié remenute.”
“Sì,” lui rispose, “sono tornato.” Poi, visto che la donna lo guardava senza rispondere, nuovamente chiese, “Chi è, chi è il morto?”

“Eh!,” quella rispose, scuotendo la testa, “chiie è... n’u sacce... dicene ché è nu ‘merrecane,” chi è, non lo so, dicono che è un americano. “Per questo è così tardi. I morti, o al mattino o alle quattro. Mai così tardi, mai alle sei di sera.”

“Però, nu ‘merrecane?” il Viaggiatore le fece eco, sorpreso, perché un americano non muore nel suo paese, nessuno muore nel suo paese a meno che non sia del paese. “E dé dòve è menùte?” da dove è venuto.

“Eh!, dé dòve,” la donna rispose, “nen’zè sà, nu sacce, mo’, po’ vedeme é tu facc’assèpé,” di dove, non si sa, non lo so, poi vediamo e te lo faccio sapere.

“Scine, scine,” lui disse, facendo un cenno d’intesa con la testa, sì, sì, “Po’ vedeme, po’ vedeme,” poi vediamo.

“E tu,” la donna chiese, prima di rimettersi in cammino col suo bastone, “quande sié menute, quande te ne vié?”

Sempre così: quando sei arrivato, quando te ne vai. Quelle parole, quelle due domande, a chi non era familiare con le usanze del paese sembrava volessero nascondere un sospetto. Non era così. Era, più semplicemente, il modo di dare il bentornato a chi veniva da fuori, soprattutto a chi veniva dalle Americhe. Come a dire bentornato, sei venuto per restare? Ma nessuno veniva per restare. Solo il morto, ora, quello sì era venuto per restare.

“So’ ppéne arrevate, mò mò, ‘nquishtu mémènt,” sono arrivato or ora, in questo momento, il Viaggiatore rispose, dopo essersi soffermato a pensare al bentornato.

La donna chiese, di nuovo:

“È quande te ne vié?” e quando te ne vai.

Il Viaggiatore sorrise. Si ricordò che non aveva risposto alla seconda domanda della donna.

“Mò, nù sacce,” disse, non lo so. “Une de chishti iuorne,” non lo so, uno di questi giorni.

“Chishti iuorne... Chishti iuorne, è come a nu taluorne, ‘u décève a bbonaneme de mammète,” la vecchia rispose, questi giorni, questi giorni, è come una lagna, lo diceva la buonanima di tua madre.

Riabbassò la testa, sollevò il bastone a mezz’aria come in segno d’intesa, o di rimprovero, prima di poggiarlo di nuovo a terra con un tac.

“Shine, mò, è proprie acqu’shì è, è proprie nu taluorne. Pò ce vedeme, eh?” sì, certo, è proprio così, è proprio una lagna. Poi ci vediamo, sì?, il Viaggiatore rispose.

“Shine, shine, pò ce vedeme, pò ce vedeme,” la donna disse, sì, sì, poi ci vediamo.

Riprese il suo cammino. Tic, fece il bastone, al primo passo, poi tac, al secondo passo. Mentre la donna si allontanava, il Viaggiatore non poté fare a meno di notare che il tic accompagnava la gamba destra, il tac quella sinistra. Curva, la donna vestiva di nero come tutte le donne della sua età, come tutte le vecchie e le non più giovani del paese.

Era vestito di nero anche il morto?

Il Viaggiatore richiuse la finestra accompagnandola con le due mani, una in alto, una in basso, per assicurarsi che non ci fosse frizione. Si ricordò del tarlo. Gliene aveva parlato sua madre, lamentandosi del fatto che prima aveva preso dimora in un legno del cesso, la cornice di un vecchio specchio rotto, poi era andato ad abitare in tutti i legni di casa. Quel tarlo aveva logorato anche la finestra, che si era contorta e non chiudeva bene. Doveva farla riparare, o doveva rimpiazzarla con una di quelle moderne, termiche le chiamavano, con intelaiatura in alluminio e doppio vetro. Andò nella camera da letto, aprì la valigia, ne estrasse il rasoio e il pettine, il dentifricio, la saponetta. Si tolse la giacca e la camicia, entrò nel bagno. Si sciacquò il viso, si pettinò guardandosi nello specchio rotto con la cornice abitata dal tarlo.

“Uno di questi giorni,” pensò, osservando i bucherellini lasciati dal tarlo, come cacche di mosca, “uno di questi giorni ne compro uno nuovo.”

Sempre lo diceva, come sua madre. E sempre, come sua madre, se ne dimenticava. Pensò, intanto, di andare in chiesa. Per vedere il morto. Per sapere da dove veniva il morto.
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Short history scritta per la AICW nel 2010 che ha conferito il secondo premio a queto racconto, consegnato
da Damiano Pietropaolo, di Toronto, con la seguente motivazione:


Nella recente letteratura sul tema dell'espatrio e del ritorno, l'evocazione di un paradiso perduto, relegato a memoria mitica, è punto di partenza per una narrativa che punta sul grande interrogativo dell'esperienza dell'emigrante: "non si può mai più tornare a casa". Mentre a volte è delimitata dal sentimentalismo, la poetica evocazione del villaggio, vista con l'occhio del "Viaggiatore", innalza il racconto al di sopra dell'aneddotico con il potere e la sensualità del linguaggio.

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