mercoledì 17 ottobre 2012

MONTREAL: CENTRO LEONARDO DA VINCI. Presentazione di "Halifax: the other door to America". 28 marzo, 2012


Innanzitutto, ringrazio voi tutti per essere qui stasera, in questo convegno che vuole onorare non tanto il mio nuovo libro in inglese, Halifax: the other door to America, quanto voi che avete scelto di fare di questo paese la vostra casa. La vostra nuova casa in questo paese incredibilmente grande. Incredibilmente bello. Incredibilmente generoso.

In modo particolare voglio ringraziare la grande assente Loreta Giannetti, ora in Italia, per essersi fatta promotrice della serata, e la mia amica di sempre Gianna Di Lalla-Mara, sempre disponibile per queste occasioni e per ogni occasione che celebra l'amicizia. Infine, come posso non ringraziare anche sua sorella Fiorella, la cui fotografia adorna la copertina del libro, sia quello italiano che questo in inglese, e la cui testimonianza ne arricchisce il contenuto.

Bene. Dopo questa premessa, voglio spiegare brevemente perché uno come me, che vive tra California, Messico e Molise, ma non in Canada, si è messo a scrivere questo libro che riguarda Halifax: l’altra porta d’America.



Diciamolo pure subito: si è trattato del solito curioso ma delicato e preciso lavorio del destino che a nostra insaputa ci prepara la strada che dobbiamo percorrere, il terreno che dobbiamo coltivare. Rimontiamo dunque un attimino a quello, al mio destino di espatriato di professione, di uno insomma che ha viaggiato.

Come molti di voi sanno, non sono proprio un amante della poesia. Amo però i maestri di quest’arte e perciò mi lascio aiutare, in questo compito, da alcune righe di un grande maestro che appartiene alla poesia universale, Pablo Neruda:

Lentamente muore chi non viaggia,

chi non legge,

chi non ascolta musica,

chi non trova grazia in se stesso.

E dunque, "lentamente muore chi non viaggia."!

Questa innocente espressione poetica potrebbe spiegare il perché del mio viaggiare. E poi, basti pensare che la vita stessa altro non è che un viaggio lungo lontano, nel sogno: come il sogno viene, dura quel che dura, poi inesorabilmente va e più non è perché si perde, per sempre, nel sublime incanto della natura.

Questo spiega, forse, il viaggio, ma non spiega il perché di "Halifax". Lo faccio subito.

Vivevo a Roma, verso la fine degli Anni ‘50, e lì avevo un ufficio di copisteria e traduzioni su Via Viminale, di fronte al Teatro dell’Opera, posto centrico e di tutto rispetto se non altro perché c’era, sulla sinistra, l’imponente mole del Viminale che mi proteggeva. Contavo, tra i miei clienti, le compagnie di produzione cinematografica più importanti di quei giorni, tra queste la Euro International Films che doppiava tutti i film mitologici e western dell’epoca: e questo significava, per me, traduzioni traduzioni traduzioni, lavoro lavoro lavoro. Nel mio studio si lavorava giorno e notte, spesso confondendo la notte col giorno e viceversa.

Poi però successe qualcosa che fece maturare, in me, l’idea, il desiderio del viaggio. Ve lo leggo da una paginetta di un libro, L'odore del mare, che ho scritto alcuni anni fa per rivivere il mio giro del mondo in poco più di trent’anni: il mio viaggio per non morire, per dirla con Neruda.

Leggo, dunque:

Roma cominciò a diventarmi stretta, cominciò a pesarmi addosso anche se non sapevo ancora perché. Lo so ora: era il destino che aveva iniziato il suo lavorio nascosto tra le ombre del mistero. Roma cominciò a pesarmi addosso e pensavo a mio fratello Tittillo che anni prima aveva scelto di emigrare a Montreal, pensavo a mio zio Nicolino, fratello di mia madre, a mia zia Nuccia, sorella di mio padre e ai suoi tre figli Pietro Tito e Consiglia, i miei cugini. Pensavo a loro e pensavo ai miei amici d’infanzia Francesco, figlio del pennellaro Di Pompeo, Antonio Vincelli, figlio di terratenenti, Alfredo Giannetti, anche lui figlio di terratenenti, Giovanni Bino, mio vicino di casa e compagno di giochi, Osvaldo figlio del sarto Filacchione, Gianna e Fiorella e Rita Di Lalla anche loro figlie di sarto, Vittorio d’Aluisio figlio del rilegatore di libri, Renato Esposito figlio del falegname. Pensavo al barbiere Michelino ù cucule e alla sua famiglia, a suo fratello Peppino anche lui barbiere, il mio barbiere, e anche lui cucule perché quello era il soprannome della famiglia. Pensavo agli amici di mio padre troppo numerosi da elencare: una filastrocca, una litania. Pensavo a una Casacalenda che si era trasferita a Montreal e si era raggruppata, secondo quel che mi dicevano, attorno alla Chiesa della Madonna della Difesa che prendeva il nome dal Santuario del paese, su una strada che tutti chiamavano semplicemente Dante, Dante Street cioè.

Dunque, se a Montreal c’era andato mio fratello, se c’erano andati parenti ed amici, se c’erano andati tutti coloro che avevano lasciato un vuoto incolmabile nel mio paese, allora, mi dissi, allora potevo andarci anch’io.

Non aspettai un visto da emigrante per partire. Per quello ci voleva l’atto di richiamo, che prendeva tempo. E io non avevo tempo da perdere. Andai perciò direttamente all’Ambasciata Canadese. Mi chiesero di riempire un modulo. Quel modulo, quella forma, mi chiedeva se ero comunista, se ero mai stato arrestato, se avessi mai usato droga, se ero omosessuale, se pensavo di recarmi in Canada per prostituirmi, se pensavo di recarmi in Canada con le intenzioni di trovar lavoro. Se se se... A tutti i se io risposi no no no e poi ancora no, facendo però attenzione di mettere il sì solo dove un sì era richiesto. Dopo una lunga attesa fui chiamato da una segretaria. Mi fece accomodare di fronte alla sua scrivania, diede un’occhiata superficiale a quel modulo pieno di domande a trabocchetto, mi scrutò dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e dopo qualche momento di esitazione mi diede il visto da turista dicendomi, seriamente e in un italiano con accento francese:

"Badi bene, signor Corsi. Questo visto le dà diritto di visitare suo fratello e il Canada per tutto il tempo che l’ispettore che trova, al suo arrivo, riterrà opportuno. Ma non le dà il diritto di restarvi per motivi di lavoro."

Per me andava bene. Misi in vendita lo studio di Via del Viminale, comprai un biglietto di passaggio in classe turistica sull’Olympia, una nave greca che partiva da Napoli per Halifax ed era, poi, la stessa sulla quale, anni prima, mio fratello e sua moglie avevano preso passaggio. E come avrei saputo anni dopo, era la stessa che si era portata via anche Loreta e la sua famiglia! Sono sbarcato a Halifax assieme ad una sconosciuta moltitudine di gente, per lo più greci ed ebrei, oltre che italiani.

La traversata dell’Atlantico, lo sbarco a Halifax, il viaggio in treno per Montreal si sono indelebilmente registrati nella mia mente. Quei momenti sono stati, per me, un unico momento: il momento di un inevitabile ma voluto sradicamento che ha poi visto la nascita di un nuovo me stesso. Il Pietro Corsi emigrante non è nato in Italia. E’ nato ed è cresciuto in Canada. Il mio rapporto con il Canada è stato, e continua ad essere, la cosa più bella della mia vita. Difficile da spiegare, forse, ma questo solo perché non vivo in Canada ma mi muovo, oggi, tra Stati Uniti, Italia e Messico.

Halifax, dunque, anche per me è stata quella porta, quella finestra sul mondo lontano tutto da scoprire, tutto da viaggiare. Il libro è nato nella sua forma attuale quasi da solo: non ha
avuto bisogno del mio aiuto. Per me poteva essere un saggio o una specie di documento storico, e poteva essere un racconto: una storia cioè, o più storie di emigranti, narrata da un narratore. Ebbene, il libro "Halifax" è un misto di tutto questo. Ma è soprattutto ciò che alla fine volevo che fosse: un libro nelle cui pagine si svolge una storia che è la storia di ogni emigrante italo-canadese approdato, un giorno lontano, al Pier 21 del Porto di Halifax. Un libro che ognuno può leggere, riconoscendo e riconoscendosi.

In breve, la storia di questo libro, e la mia storia. Che è poi la storia di quanti, con me e come me, un giorno ormai lontano nel tempo, ma non per questo dimenticato, si sono avventurati su quell’Oceano che chiamiamo Atlantico per bussare a quella porta che chiamiamo, affettuosamente e con piacere, anzi con orgoglio: Halifax: l’altra porta d’America.

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